Avere un figlio rappresenta per la donna in primis e per la coppia poi, un evento cruciale della loro storia di vita.
Un evento che si colloca oggigiorno sempre più all’interno di un percorso di scelte ponderate, posticipate in funzione del lavoro e dell’autonomia, per nulla scontate, e per questo che si connota come un “markers event”, ovvero una tappa apicale del ciclo vitale di una persona adulta.
Nel mondo scientifico si è ormai d’accordo nel riconoscere questo momento come una vera e propria “crisi” perché comporta, oltre ai numerosi cambiamenti fisici, emotivi, relazionali ed economici, anche la costruzione di una nuova identità, sia per la donna che per l’uomo che per la coppia.
Diventare madre modifica in maniera permanente la vita di una donna. Si tratta di un cambiamento complesso e delicato che emerge gradualmente e che va accolto e valorizzato affinché diventi un’ulteriore tappa nello sviluppo della personalità “sana” della donna e del suo bambino. Proprio per la complessità di questo passaggio evolutivo, la donna può sperimentare reazioni emotive e psicologiche contrastanti, sia positive che negative.
Il vissuto privato della nascita è infatti spesso in netto contrasto con l’immagine idealizzata della maternità e il partorire non basta per essere e sentirsi madri.
Come alcuni studi recenti hanno dimostrato, una madre su dieci ha reali difficoltà nel creare una relazione con il proprio bambino nel primo anno di vita. L’amore per il figlio spesso non è disgiunto da un sentimento di rabbia, la gioia si affianca alla paura, la speranza si alterna alla colpa. Questo perché ogni figlio si nutre, soprattutto nei primi mesi di vita, del sacrificio della madre: sacrificio del suo corpo, del suo tempo, del suo spazio, del sonno, delle relazioni affettive e del suo lavoro. Anche se questi stati d’animo in diverse misure sono presenti in ogni maternità, molte donne non ne sono consapevoli e soffrono in silenzio perché si vergognano, perché sentono che non amare sin da subito incondizionatamente il proprio bambino è un’esperienza terribile da provare e non socialmente accettabile.
Per le generazioni passate diventare madri era invece un passaggio naturale, quasi obbligato: un passaggio che chiedeva al mondo rispetto ed era circondato da una certa sacralità. Basti pensare al rito delle levatrici che arrivavano a casa, delle donne delle corti che si riunivano attorno alle partorienti, ai riti di passaggio che in alcune culture venivano effettuati per accogliere la nuova nascita, ai quaranta giorni dopo il parto. Dare alla “luce” significava dare al mondo qualcosa di prezioso e fare qualcosa di prezioso.
Diventare madre era anche questione di tempo.
Oggi sembra che questo tempo non esista più. Le strutture ospedaliere di regola dimettono la puerpera in terza giornata. La neo-mamma non ha ancora avuto il tempo di capire cosa è accaduto al suo corpo che si trova già fuori, “buttata” nel brusio della vita, circondata da persone felici per lei, sorridenti e bravissime nel darle suggerimenti e prescrizioni, catapultata in un cambiamento definitivo senza, a volte, avere gli strumenti e le risorse per affrontarlo. In fondo è tutto chiaro: cambi di pannolini, ore della poppata, sonno, pulizia del cordone ombelicale, lochi, visita di controllo dopo una settimana e così via. Tutto viene codificato. Ed è sempre questione di tempo, ma questa volta, di tempo che manca, tempo che sfugge, tempo che non viene vissuto appieno perché pieno di emozioni contraddittorie. La società fin dalla nascita, chiede di esser già pronte ad esser madri (e possibilmente madri perfette con la M maiuscola), ma la verità è che la transizione verso la maternità è un processo lungo e complesso, che inizia biologicamente col concepimento e che dura emotivamente più di nove mesi, continua nel puerperio e va ben oltre.
Perché non c’è nulla di innato o di istintivo, ma ci si costruisce genitori giorno dopo giorno nel prendersi cura e accudire il proprio piccolo, nel creare legame e dare stabilità, nel provare amore e anche preoccupazione, nel sentirsi pieni, ma anche incapaci.
Perché essere madri necessita e merita tempo.
Dr.ssa Marta Corbetta, Psicologa e Psicoterapeuta.